Chi fa da sé… fa da sé #2: Antigone’s Fate, Vargrav, Elegiac, The Clearing Path, Cryptivore

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Nel segno di Paolo Bitta, unico vate e ispiratore di modi di dire lasciati a metà, mi appropinquo verso le uscite del 2018, ma ho ancora una caterva di roba molto meritevole da segnalarvi dagli scorsi mesi. I miei (nostri ormai) amici musicisti più o meno dichiaratamente sociopatici vanno avanti per la loro strada lastricata di intenti folli e imprese fuori dal comune e non potrei essere più felice, come lo sono oggi, di dar conto di alcuni di loro, che hanno reso l’inverno una stagione migliore e il panorama metal ancor più ricco.

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Antigone’s Fate si prospetta qualcosa di estremamente prezioso sin dal riferimento alla tragedia greca, figuratevi come mi sono sentito rinascere, reincarnato ormai in un satiro con problemi di priapismo, al suono delle delicate chitarre acustiche in apertura. Poteva essere addirittura un nuovo Aquilus, e invece il disco brilla di luce propria. Insomnia (Northern Silence Productions) è una splendida realtà e Ruun è riuscito a sbalordire con effetti pirotecnici. Non proprio e non sempre black metal. Sì, le melodie strappalacrime sono quelle dei Woods of Desolation, ma c’è tutto un senso di caducità autunnale e di lenti passaggi molto intensi a colorare l’album. Ecco, i colori. Spesso il metal è al massimo bicolore, mentre qui c’è un ventaglio di sfumature eccezionale, a partire dalle varie tonalità del cantato che ogni tanto mi ricordano i vecchi Solstafir. C’è anche tanta Finlandia nella tavolozza dei colori: Amorphis in primis e qualcosa degli Insomnium nelle trame di chitarra. Sono quattro brani molto lunghi che si fanno assaporare fino in fondo.


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L’emotività di Antigone’s Fate si trasforma in stridente e altezzosa crudeltà nel primo disco del progetto Vargrav. Già dall’etichetta si dovrebbe capire molto e infatti Werewolf Records è una sicurezza da questo punto di vista. Il solo e unico mattatore della scena è il veterano v-KhaoZ, batterista degli Azaghal a fine anni Novanta e ora negli Oath, nonché factotum di Druadan Forest e altri, alle prese con uno sferzante tributo di sangue ai primi capolavori di Limbonic Art e Emperor, questi ultimi coverizzati con Ancient Queen. Tastiere sinfoniche e cosmiche sono essenziali, ma è decisivo il gran gusto del nostro polistrumentista, che ci regala un album completo, sferzante e pieno di passione. Non sarà la cosa più originale che avete ascoltato negli ultimi dieci anni, ma io un deca per questo Netherstorm (Werewolf Records) lo spenderei volentieri. Se ascoltato durante una camminata invernale nei boschi ti dà l’effetto “despota incontrollato della foresta”.


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Anche Zane Young, come tutti i musicisti che vengono su da soli, è un bel po’ dispotico e immensamente produttivo. Elegiac è attivo dal 2014 e sono usciti qualcosa come otto split (di cui uno con gli italiani Sazernyst) e quattro dischi lunghi. Tirare un po’ il fiato non è consigliato perché sono tutti molto ispirati. Black Clouds Of War fa un salto indietro e riprende qualche suggestione di Spiritual Turmoil, rielaborandola nella immensa rabbia del bellissimo Rise From The Ashes, il mio preferito. I punti di riferimento sono più o meno i soliti, ossia Satanic Warmaster e Judas Iscariot, sciolti nell’acido che mr Young (classe 1991) sputa fuori in ogni dove, con un piglio curiosamente pagano e depressivo allo stesso tempo. Ogni tanto pecca di prolissità come nella traccia The Hanging Head Of Death, tuttavia in un’ora di disco è di gran lunga prevalente la grande quantità di idee che compongono le sue corrosive composizioni. Spero con tutto me stesso che il passaggio ad ATMF riesca a mettere in luce la pazzesca negatività e l’approccio distruttivo di Elegiac perché è veramente meritevole quello che ha fatto fino ad ora.


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Ho tenuto da parte questo disco fino all’ultimo, mi sono occupato delle cose più ordinarie, poi ho pulito i timpani con qualche ora di assoluto silenzio. Eppure non sono riuscito a fare a meno di trattenere l’eccitazione. Risuonavano e risuonano tutt’ora nella mia mente sia Watershed Betwern Earth and Firmament, sia The Winds That Forestall Thy Return a nome Summit. Ho finito gli aggettivi per descriverli e per descrivere me stesso mentre li ascolto. Gabriele Gramaglia arriva alla seconda tappa (e mezza, considerando l’EP Abyss Constellation) del suo The Clearing Path, in continuità con l’esordio, intitolata Watershed Betwern Firmament and the Realm of Hyperborea (I, Voidhanger Records). Sì, titoli lunghi, muovete i neuroni ogni tanto. Non è tutto un SatanicWarKommand666. Ho provato a far piacere l’arte del musicista italiano ai classici metallari, non ci sono riuscito. Sono quindi arrivato a farmi una domanda: è lui ad essere troppo avanti, oppure i gruppi Facebook sono pieni di capre con una connessione a internet? Entrambe le cose. Vabbè sono anche io una testa dura, che cerco confronto con chi giudica difficili gli ultimi dischi dei Marduk. Tornando a noi, il secondo Watershed… ha un suono più dissonante e meno classicamente distorto, eppure allo stesso un po’ più corposo e caldo. Si sentono i Gorguts e Artificial Brain, da questo punto di vista. Poi come in passato si gode nelle rapide e nei mulinelli di assoluta imprevedibilità così come i maestri di un certo tipo di metal insegnano: Castevet, Krallice e Caïna, la trinità divina che alimenta The Clearing Path. Zero ripetizioni, zero momenti sotto tono, non riesco veramente a trovare dei difetti. È uno di quegli album talmente impressionanti che ascolto a nastro per cento volte di seguito senza mai stancarmi. Già non vedo l’ora di scoprire cosa c’è oltre il regno di Iperborea. Disco dell’anno vecchio e di quello nuovo. Verdetto: Gramaglia is on fire.


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Dessert. Solo un dolcino. Non voglio proporvi più nulla di troppo impegnativo. Una mousse di materia cerebrale? Benissimo, è in arrivo. Una roba molto veloce, tra l’altro. Cryptivore è una delle nuove scoperte di Blood Harvest. Si tratta di un progetto gestito dal solo Chris Anning che ha dato vita lo scorso anno al grazioso Unseen Divinity, ora pubblicato in cassetta dall’etichetta svedese. Le canzoni sono rapide e polpose, riescono a carpire tutti i pregi del death metal old school e in misura minore del grindcore. I riff sono sempre riconoscibili e tradizionali, tendono a qualche melodia svedese ogni tanto, il cantato è un bagno nella purulenza e rinfresca l’ambiente immediatamente. I Carcass ve li ricordate, sì? Oppure i miei pupilli Cadaveric Incubator? Stiamo più o meno lì. Apprezzo che Cryptivore sia per la semplicità e per la immediatezza: si vede che Anning ha idee e le vuole mettere in mostra. Altrimenti è troppo semplice barricarsi dietro una drum machine a un numero spropositato di bpm. Ottimo punto di partenza! Nel frattempo qui abbiamo digerito e vi do appuntamento alla prossima scorpacciata.

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