Rogga Johansson, un uomo chiamato death metal: dai Paganizer alla conquista del mondo

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Rogga Johansson. Un nome, un manifesto, un’istituzione. Siamo nel 2018 ed è difficile non essere passati almeno una volta nella vita su un suo disco, ma poniamo che fino ad oggi abbiate ascoltato solo rap albanese. Il signore che vi ho nominato è una delle più coriacee e irriducibili incarnazioni del death metal. Ne produce in continuazione, a ritmi non coerenti con nessun’altra prospettiva di vita: quindi si desume che lui È il death metal. Avevo tentato di intervistarlo qualche anno fa, ha voluto le domande e non ho mai ricevuto risposta. Penso mi avesse bloccato, a un certo punto. Ma lo capisco, so essere molto rompicoglioni quando voglio. E so anche dimenticare questi episodi. Finché la musica vale, il resto non conta.

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I Paganizer sono la creatura più nota di Rogga. Non è solo la media di un disco lungo ogni due anni in vent’anni di carriera ad essere spaventosa. Oltre a vari EP, il Nostro ha creato tutta una galassia di progetti di cui più avanti vi illustrerò la roba più recente. Coi Paganizer vado in brodo di giuggiole per i dischi dei primi anni Duemila, da Promoting Total Death a No Divine Rapture, e in generale è difficile trovarne uno davvero brutto, forse solo il primo Deadbanger, molto diverso da quanto sarebbe diventato dopo il sound classico della band. Conoscendo gli altri suoi gruppi non mi preoccupavo, ma è da World Lobotomy del 2013 che non usciva un full length. Ok ok, ci sono cinque EP in mezzo, lo ammetto. Land of Weeping Souls (Transcending Obscurity Records) continua nel microcosmo creatosi da On The Outskirts Of Hades, ossia chitarre sgranocchianti più che mai e in bella vista, con una produzione molto più diretta di -che so- un Carnage Junkie. È death metal che predilige riff semplici e da ricordare dopo mezzo ascolto, con ritornello e momento dell’assolo ben allestito. Gli schemi sono quelli, inutile girarci intorno, è che una riproposizione così convincente è sempre quantomeno gradevole, e addirittura corroborante in certi casi. Anche quando va un po’ più piano del solito (Selfdestructor), la ruspa paganizzante non risparmia nulla sul suo cammino.


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Un musicista con decine di gruppi ha bisogno di creare un disco… solista? Evidentemente sì. Lo scorso anno è uscito, per me un po’ a sorpresa, Garpedans, a nome Rogga Johansson. Chaos Records si è accaparrata quest’opera atipica per gli standard del nostro stakanovista. Le tematiche riguardano il folklore di Gamleby, paesino svedese che ha dato i natali al nostro musicista di riferimento. Musicalmente si sente qualcosa di più particolare, anche se le differenze non sono certo abissali rispetto a tutto il resto. Innanzitutto cambia un po’ il modo di cantare di Rogga, più vario. E inoltre è subito individuabile la presenza di tastiere. L’estremismo non è così accentuato, c’è voglia -e forse anche necessità- di essere più espressivi che mai. Mi dicono dalla regia che sarebbe dovuto essere un disco dei Demiurg, almeno in origine, quindi ascoltiamoci questo spaccato di intimità nel percorso artistico di Rogga. Anche lui allora, se vuole, sa contaminare la sua musica. Ehi, erano anni che volevo definire “intimo” un disco death metal!


Nella sezione Johansson & friends, dove gli amici sono da intendersi come gente molto nota nella scena death, voglio segnalarvi in un lampo, poiché dischi nuovi non sono prossimi, i Down Among The Dead Men con Dave Ingram; i Putrevore con Dave Rotten; i Minotaur Head con Bob Bagchus e Theo Van Eeleken. Passo allora ai due progetti che hanno figliato da poco.


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Questo, ad esempio, si descrive da solo. Basta leggere i cognomi. Di Rogga stiamo dicendo tanto, di Paul Speckmann non c’è molto da ribadire: uno dei progenitori del death metal, sulla breccia da oltre trent’anni, un personaggio unico. I primi due dischi col moniker Johansson & Speckmann mi piacciono moltissimo, non tanto il terzo, che di conseguenza ho ascoltato meno degli altri. From The Mouth Of Madness (Soulseller Records) è un ritorno coi fiocchi, un’epifania di sgroppate old school che recupera tutto il feeling perso con Edge of Abyss. Non ci sono pattern di batteria lanciati a mille, non c’è spazio in questo disco per brani come Perpetuate The Lie, si fa emergere più che mai la ruggine e la cazzimma, dosando gli ingredienti in modo tale da esaltare titanicamente la componente speckmannesca/trasandata/americana. Sembra più un disco dei Master che altro. E dovreste sapere che io adoro i Master. L’anteprima ve la ascoltate QUI!


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Ecco un altro gruppo che ho a cuore (anche perché l’ho seguito passo passo sin dal primo disco). Anche stavolta Rogga ha scelto un compare eccezionale: Kam Lee, membro dei Death nei primissimi anni di vita e cantante in vari progetti, tra cui il più celebre (a ragione) sono i Massacre. Apprezzo molto anche la sua esperienza come Bone Gnawer, di cui custodisco gelosamente la raccolta Primal Cuts. The Grotesquery è una delle cose migliori che mr Johansson abbia mai fatto. E ne ha fatte tantissime. The Lupine Anathema è il quarto disco con questo moniker e segna, esattamente come il nuovo Paganizer, l’allontanamento dalla Cyclone Empire Records. La musica -udite udite- cambia. Mi piaceva quel sound più vicino ai Massacre che alla Svezia, ma sempre umido e orrorifico come i Ribspreader. Oggi The Grotesquery è una band più standardizzata e sbilanciata verso un generico Johansson-sound, reso leggermente arido dalla produzione tipica Xtreem Music, con diverse parti di lead guitar più melodiche e uno stile di batteria che ho sentito -senza entrare in empatia- in Edge of The Abyss di Johansson & Speckmann. Se circa metà disco non mi fa impazzire, un po’ come i Revolting, ci sono comunque i brani più lenti e macabri che ancora sono pieni di linfa mortale.


Nota a margine. Garpedans, così come tre dischi su quattro di Johansson & Speckmann e il disco dei Minotaur Head, ma anche diversi altri lavori del Rogga di cui non ho detto nulla perché musicalmente non mi piacciono (le opere più recenti di Megascavenger e Revolting ad esempio) hanno in copertina delle creazioni mostruose del maestro partenopeo Roberto Toderico. Napoli è più vicina alla Svezia di quanto si possa pensare.

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