Chi si rivede! Nell’anno dei grandi ritorni si ritagliano uno spazietto anche i Solfernus. Erano dodici anni che non si avevano notizie discografiche di loro, dal primo full length Hysteria in Coma. Nessuno stravolgimento di formazioni in questo nuovo Neoantichrist, solo una essenziale sostituzione: al posto di Tomáš Corn, andato a fondare gli incredibili Cult of Fire, arriva il batterista dei Root, che non necessitano di alcuna presentazione.
Da questi già proveniva Igor Hubik, lì bassista e qui chitarrista. Sarò brutale: i Solfernus non godono di molto favore, stando ai pochi commenti in rete, qualcosa di cui non dover neanche dare un cenno. Beata ignoranza… il debutto era un ottimo lavoro di black metal tradizionale con varie influenze che andavano dai Cradle of Filth ai Belphegor pre-Nuclear Blast. Il disco in esame non cambia coordinate, le definisce meglio e segna una piccola crescita della band ceca. I riferimenti sono ancora quelli appena citati, soprattutto nella voce e in certi riff dal sentore thrash, disseminati qua e là. Le tastiere hanno un ruolo non essenziale, ma comunque importante, così come le chitarre acustiche nella grandiosa Ignis Dominion, come anche in Mistresserpent e My Aurorae. Ogni tanto si crede un po’ troppo nel legame coi Root e si hanno passaggi non brillanti (Pray for Chaos e Once Upon a Time In The East). In generale i Solfernus sanno il fatto loro e la mia canzone preferita, la dissonante e lenta Stone In A River, lo conferma. A me basta questo, un disco non eccellente ma molto solido, come spesso succede con Satanath. Ancora qualche piccolo accorgimento sulla personalità e sarà compiuta la maturazione.
[F]
[…] album. Non è semplice descriverlo, per quanto mi riguarda. Forse l’hai fatto meglio tu nella recensione su Blog […]
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