Enslaved – E (Nuclear Blast), 2017

Enslaved-E

Gli Enslaved sono tra le cose più meravigliose che il metal abbia mai partorito. Per definizione la meraviglia è qualcosa che scompare dopo aver conosciuto la sua fonte. Non con gli Ensalved. Si è sempre rinnovato quel senso di stupore e di profonda ammirazione verso opere senza tempo e dall’immenso valore, protrattesi incredibilmente per una scia aurea che pare senza fine.

Gli album di questa band sono una continua miniera, oggetto di analisi dal momento della loro uscita e tutt’ora spulciati da chiunque voglia approcciarsi al black metal che elasticamente abbraccia l’avanguardia e la tradizione vichinga. È questione di metodo, principalmente, non tanto di generi. Il metodo era mostruosamente avanti almeno sin da Eld, uscito nientemeno che vent’anni fa. Non posso citare tutti e TREDICI gli album che precedono il nuovo E, vi dico solo che ognuno è condicio sine qua non di quello venuto dopo e perfetto sviluppo di quello venuto prima. Che i Nostri potessero/dovessero arrivare al punto in cui si trovano ora era fuori discussione già da almeno dieci anni, mentre i germi di quello che suonano adesso erano presenti anche prima. Vi potrei pure dire che per la vulgata da Vertebrae (2008) in poi sono sempre gli stessi Enslaved, ma i fatti sono altri e soprattutto è la musica che parla da sé. In particolare dal duro e arcigno RIITIIR si era arrivati a In Times, guidato da meno impeto, ma con maggiore melodia ed epicità. Proprio il grande protagonista di allora, Herbrand Larsen, il tastierista e cantante dalla riconoscibilissima voce pulita, è uscito dalla band, facendo posto a Hakon Vinje, dall’impostazione più tradizionale sullo strumento e dalla timbrica vocale più eterea e impersonale. Qualcosa è cambiato quindi e stavolta in modo negativo. Lo si sente già da come inizia Storm Son, uccellini e arpeggi dolcissimi, non solo a causa di quelli di gran lunga il peggior brano mai scritto dagli Enslaved. Una ammucchiata disorganizzata e legnosa di suggestioni opethiane. Si ha una sensazione stranissima, ho pensato seriamente che sarebbe potuto essere un album totalmente prog anni Settanta, quello a cui puntano gli Opeth dal post-Watershed (Sacred Horse è un palese tributo, molto poco personale, ma almeno è un buon pezzo). Sono rimasto più attonito di quando ascoltai la prima volta Isa (la canzone) o Building With Fire, ora una delle mie preferite. Ecco, si parte da quest’ultima e si arriva a E, la runa Ehwaz che si scrive… come la lettera M. La copertina è rivelatrice della direzione presa. Non assomiglia nello stile a quelle dei Wardruna? Ivar Bjornson non ha partecipato al trionfale progetto Skuggska proprio col tizio dei Wardruna? E in due canzoni non c’è proprio Einar Selvik come ospite? Questi saranno pure indizi, ma l’andamento più naturalistico e folkloristico, condito solo da spruzzatine di black metal (lo scream, più che altro), è una prova. E è un album molto più povero dei suoi fratelli maggiori, emerge una inedita normalità unita a una formula che ha quasi definitivamente lasciato l’estremo, e quel poco che è rimasto non è nemmeno originale come al solito. Il sassofono e gli insistiti arpeggi in controtempo di Hiindsight sono una chiusura mesta e tutto sommato prevedibile, che si ricollega al brano iniziale. Come sempre mi riservo il diritto di poter cambiare radicalmente parere, ma per ora non credo che tornerò molto presto su questo modestissimo E. Piacerà agli amanti del prog metal, immagino. Quelli che farebbero la faccia schifata ascoltando uno qualsiasi dei dischi passati degli Enslaved. Delusione dell’anno.
[F]

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